Circolo Lenin di Puglia di Ostuni

Circolo Lenin di Puglia di Ostuni

Una delle prime organizzazioni marxiste-leniniste di Ostuni

E’ stata una delle prime organizzazioni marxiste-leniniste di Ostuni. l’organizzazione fu attiva nel periodo a cavallo tra la fine degli anni ’60 e inizio anni ’70. Il Circolo Lenin di Puglia nasce nel giugno 1969 dalla fusione dei circoli Lenin di Lecce,Bari,Ceglie Messapica e del Circolo Che Guevara di Locorotondo. Strutturato all’insegna di posizioni rigorosamente marxiste-leniniste,organizzò la sua pratica politica contro l’azione spontaneista che,in quel periodo, caratterizzava più di un gruppo che, nelle lotte di massa di quegli anni, si poneva a sinistra del PCI. Il Circolo Lenin di Puglia vide la sua presenza radicata soprattutto fra gli studenti medi, ma registrò consensi anche nell’organizzazione e nelle lotte bracciantili, come a Ceglie Messapica, Trinitapoli e Conversano; una esperienza questa che orientò il gruppo dirigente verso approfondimenti teorici della questione agraria e delle lotte sociali nelle campagne. A tal proposito vanno segnalati i volumi,curati dai militanti dell’organizzazione, “Capitale,Contadini,Sinistra Rivoluzionaria” e “Questione agraria e sinistra rivoluzionaria”. Questa esperienza teorica e questa sensibilità animeranno le pagine,negli anni immediatamente successivi, di periodici come “Meridione città e campagne” e “Agricoltura e lotta di classe” con contributi puntuali da parte di quei militanti che nelle analisi e nelle lotte contadine si erano formati . L’organizzazione leninista pugliese ebbe, nel giornale “La Riscossa Comunista”, il suo organo di informazione. Nel 1973 il Circolo Lenin confluì nell’ Organizzazione Comunista (marxista-leninista) Fronte Unito. Nei primissimi anni ’70 i fermenti rivoluzionari ,che già si erano già espressi nella Città Bianca con il Collettivo Nuova Sinistra e l’emergere delle lotte del Movimento Studentesco, daranno vita ad una sezione locale del Circolo Lenin di Puglia,sita in via Rudia 23. L’azione politica di questa organizzazione e dei suoi militanti, privilegerà l’intervento nelle lotte studentesche e,anche ad Ostuni,tale organizzazione farà sentire la sua voce nel mondo bracciantile e nelle sue lotte. Va ricordato,a tal proposito, l’importanza della locale sede della CGIL come punto di riferimento di tali lotte e le assemblee organizzate nei suoi locali che ospitavano, non solo gli interventi dei sindacalisti locali,ma anche quegli dei militanti della sinistra storica e rivoluzionaria.
Il Circolo Lenin,in Ostuni,si caratterizzerà anche per l’impegno antifascista e per attività di Contoinformazione,in modo particolare sulla strage fascista del 12 dicembre 1969 e per la liberazione del compagno Pietro Valpreda ingiustamente accusato come esecutore dellla strage alla Banca Nazionale dell’Agricoltura di Milano. Fu proprio in quegli anni che la locale sezione del Circolo Lenin di Puglia,insieme ai compagni del movimento organizzò,presso l’allora Cinema Centrale, una giornata di lotta e di controinformazione per la liberazione di Valpreda. Una delle sue ultime iniziative politiche,a cavallo della sua trasformazione in Organizzazione Comunista (m-l),fu la partecipazione alle lotte dei lavoratori delle “autolinee Quaranta”,con relativa occupazione della sala consiliare e concerto improvvisato del poeta-cantautore ostunese Tonino Zurlo. Così come tutti i circoli locali,anche quello di Ostuni, nel 1973, aderì all’ OC (m-l), ponendo fine a questa breve ma intensa esperienza politica.

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1969-2009. A quaranta anni dal Circolo Lenin di Puglia

(Nelle parole di un dirigente del Circolo Lenin di Puglia, il ricordo dell’organizzazione nel quarantennale delle sua fondazione) Ho poco da dire. Le mie parole le ho date a questa mostra, a questo video. Le mie parole sono questa sala piena, con tutti/e voi qui. Questa impagabile soddisfazione, di aver contribuito (con altri e altre a cui sono infinitamente grato) a metter in movimento un evento straordinario, basterebbe e sarebbe d’avanzo. Molti si chiedono perché questo incontro, questo percorso di memoria e di ricostruzione storica avviene oggi, a 40 anni, e non, per esempio, dieci anni fa. Forse perché c’è la giusta lontananza storica. Da un lato non c’è più il bisogno di prendere le distanze dalle pratiche dei primi anni ’70, quasi per dimostrare di essere diventati più ragionevoli (e la ragionevolezza, si sa, è una virtù politica rilevante). Dall’altro, però, abbiamo smarrito la scontata certezza che quella storia, sebbene politicamente lontana, continui ad alimentare radici culturali per così dire inestirpabili. Certezza sulla quale avevano posato a lungo anche le nostre prese di distanza. Per prima cosa, siamo di fronte alla possibile cancellazione di una memoria storica, se qualcuno non si preoccupa di raccogliere in maniera organizzata i testimoni, quelli in carne e ossa, e quelli di carta, di immagine. Ma, soprattutto, siamo di fronte a un possibile rovesciamento di segno, e per così dire a un revisionismo storico senza storia, un revisionismo storico “preventivo” (perché la storiografia del decennio ’70 ancora è insufficiente). È in atto una rivoluzione culturale restauratrice, che prima ha lungamente pervaso la cosiddetta opinione pubblica diffusa, il grande pubblico televisivo disgregato, diffondendo modelli culturali che sono l’antitesi non solo del ’68, ma anche della lotta antifascista e della costituzione repubblicana, e che ora muove alla conquista dei piani alti, tentando di affermare nell’editoria e nelle aule universitarie le proprie interpretazioni del ’68 come se fosse stato il grande evento corruttore contro il quale è stato necessario mobilitare il nuovo spirito dei tempi. Quello che serve non è incrociare le armi di una battaglia ideologica. Quello che serve è raccontare. Conservare o riportare in vita storie di uomini e donne, di ideali, speranze, pratiche, errori, sbagli a volte gravi, e magnifiche imprese. Una narrazione insomma, e francamente non si vede perché questa narrazione di cui noi vogliamo essere evocatori, poeti e cronisti, debba avere minor valore di altre. Narrazione di chi e che cosa? Della storia di un gruppo, il Circolo Lenin di Puglia, isolato e separato da altri? No certamente. E non solo perché questo è l’inizio di una storia che in Puglia nel seguito degli anni ’70 si è chiamata in altro modo e ha coinvolto altri giovani che sono qui, che non c’erano 40 anni fa, ma entrarono in gioco 35 o 30 anni fa. Ma soprattutto perché raccontiamo un tassello di una grande vicenda collettiva italiana (e non solo) che tanto meglio sarà conosciuta attraverso gli strumenti filologici e critici quanto più sarà ricondotta non alla tesi omologante di una storia generale, ma a storia e analisi di territori particolari, di esperienze concrete, di vertenze, di produzioni culturali, di gruppi di persone. È lecito interrogarsi se nel Meridione d’Italia non spicchi per originalità, per organicità e linearità la storia del Circolo Lenin; non dissimile, forse, da altre vicende siciliane, calabresi, campane, magari meno organiche ma simili appunto sotto certi aspetti, e da riscoprire. Questa storia acquista rilievo, fra l’altro, per il sentimento di identità e appartenenza a una regione. Ma, si badi, regione intesa non certo come piccola patria, bensì come formazione storica, sociale e culturale determinata, la cui specificità era letta attraverso il mito antico della lotta bracciantile e contadina, e l’inchiesta nelle campagne, e attraverso la travolgente novità – il nuovo mito – dell’operaio-massa Italsider o Montedison e dello studente-massa, insieme nuova edizione del gramsciano intellettuale meridionale e soldato di una popolosa forza lavoro intellettuale disoccupata. È lecito domandarsi inoltre se quella non sia stata un’epifania di un “laboratorio pugliese”, senza per questo affermare, s’intende, che le vicende politiche successive della Puglia e in particolare la primavera pugliese dipinta spesso come un laboratorio (e che fa parlare di sé, visto il risultato elettorale di Bari), discenda da quel momento, ma interrogandosi con curiosità se vi siano nessi, suggestioni, persistenze, culture del territorio e sedimentazioni antropologiche, sotterranee trasmissioni di memorie di lotte e di movimenti. Anche se crediamo che la politica sia prima di tutto cultura, e che la cultura sia di per sé un fatto politico, sappiamo ben distinguere il terreno del lavoro culturale e storico da quello della politica come prassi attuale e manovra del momento. Non mi sognerei di affermare che la coerenza e la fedeltà sostanziale agli ideali e alle aspirazioni degli anni ’70 (ivi incluso lo spirito critico, con la capacità, almeno teorica, di critica e superamento delle pratiche contingenti) debba far premio sull’oggi in termini direttamente politici, quasi suggerendo una continuità di simboli, forme e linguaggi. Così come non mi sogno di pensare che la mia libertà di sperimentare prassi e forme politiche necessariamente nuove – indispensabile come l’aria, visto che tutte le forme politiche della sinistra hanno ripetutamente dimostrato un irreversibile fallimento – debba impormi una sorta di ansia di autocritica aprioristica, di colpevolizzazione di ciò che fummo, di pregiudiziale e acritico disconoscimento, per non dire sconfessione. Vorrei che alla giusta autonomia di ricerca e di sperimentazione politica non fosse consentito di prendersi confidenze insolenti con la storia, anche con quella recente; e che si maneggiassero con cautela critica pure i miti delle ribellioni collettive, quando sono strettamente connessi alle prassi sociali di masse o almeno di moltissime persone. Abbiamo incominciato a raccontare e a documentare. Questa assemblea che si arricchirà di racconti, testimonianze, punti di vista, resterà essa stessa come un documento irripetibile, a disposizione di quei e quelle giovani, ci auguriamo tanti, che vorranno studiare la storia e il mito. – Pasquale Martino

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